La parola autarchia evoca tempi lontani. Gente in orbace, inique sanzioni, caffè di cicoria, Africa Orientale Italiana, guerra alle porte. Suggestioni esotiche a parte, c’è ben poco per cui essere nostalgici di quell’autunno del 1935, quando la Società delle Nazioni impose all’Italia di Mussolini un isolamento commerciale che cambiò la nostra Storia.
Quella stessa Storia è maestra di vita e conviene far tesoro dell’insegnamento che proviene da quegli anni drammatici. Un insegnamento che riguarda l’attualità e il futuro.
Durante il periodo autarchico, che il Fascismo dilatò ben oltre le sanzioni economiche (cessate nell’estate del 1936), quel “far da sé”, quell’accontentarsi e quell’adeguarsi divennero un manifesto politico e un sistema sociale. Tutti dovettero trovare il meglio nel peggio. Per coloro che puntavano all’eccellenza, però, fu più complicato, perché l’impossibilità incideva drasticamente sulla qualità. Eppure…
I “tessuti dell’Impero” non furono una libera scelta, bensì un’imposizione. Ma la necessità, che a volte conduce alla virtù, più spesso aguzza l’ingegno. E porta a valorizzare le risorse di prossimità. Non fu solo una questione di nazionalismo.
Si trattò di applicare un credibile problem solving perché quelle risorse prossime non erano sufficienti o semplicemente non c’erano più, come nel caso della lana. In certe condizioni si sviluppa, se si vuole sopravvivere, una visione differente. Si abolisce lo spreco, si tende al riuso, si spreme il massimo dal minimo, dando una vita diversa o nuova alle cose.
Non si poteva smettere di produrre filati, tessuti e capi d’abbigliamento. Ma la lana, quasi tutta importata con la mediazione inglese, non arrivava più. Allora fu rilanciato, per quanto praticabile, l’allevamento ovino nazionale con specie autoctone. Ma non poteva bastare. Quindi si filarono l’agave, il gelso, la ginestra, l’ortica, lo sparto ecc. E ancora di più: il latte o, meglio, la caseina, diventò Lanital, dalla canapa si ricavò il Cafioc, dalla cellulosa la Cisalfa e, soprattutto, il raion. Monsù Gualino si fregava le mani: la sua SNIA Viscosa non aveva mai avuto tanti ordini.
A ben guardare sono tutte fibre naturali o appena artificiali. Niente petrolio (che tanto, non c’era…). Quindi l’autarchia fu green economy ante litteram? Non esageriamo. E quell’attitudine indotta a non buttare via niente, anzi a sfruttare tutto, il più possibile, si può considerare come un’anticipazione del recycling, o del più moderno e creativo upcycling? Non travisiamo. Però Ermenegildo Zegna e altri imprenditori come lui dovettero improvvisare e adattarsi per raggiungere lo scopo di non chiudere le fabbriche e non scaricare sulle maestranze tutto il peso di quel momento difficile.
I tessuti autarchici Zegna sono ormai una testimonianza storica, ma più ancora un esempio di resilienza e di versatilità prima di tutto mentale, e poi produttiva. La prossima volta li conosceremo meglio.