L’“Heritage Day” di Casa Zegna è un appuntamento importante non solo per chi nutre curiosità nei confronti di archivi tessili di fatto unici, ma anche per chi vuole scoprire le molteplici possibilità che i giacimenti archivistici offrono a chi intende elaborarne i contenuti. Il connubio tra il campionario Zegna, quelli Claude Frères e Heberlein, e la mostra di Emilio Vavarella è significativo, perché sarà interessante osservare la varietà di “materia prima” organizzata e razionalmente disponibile (questo è il lavoro degli archivisti) e il “prodotto finito” di un artista capace di dare una nuova forma alle cose intrecciando conoscenze, inventiva e tecnologia digitale. I tessuti nobili della maison alsaziana/parigina dei fratelli Claude (169 campionari, dal 1859 al 1938) e le fantasie degli stampati della zurighese Heberlein (più di 2.000 libroni dagli anni Venti agli anni Settanta del Novecento) vanno guardati anche nella prospettiva delle loro potenzialità creative, tanto nel contesto tessile, così come è già stato fatto con le collezioni Zegna (a partire da quella originaria del 1910 rivisitata con il Centennial del 2010), quanto al di fuori, perché il futuro è interdisciplinare, multitematico e metaversico.
“Su, al quarto piano, la camera costava dodici franchi al giorno; Rose aveva voluto una camera decorosa, senza lusso, però; perché quando si soffre non c’è bisogno di lusso. Tappezzata di cretonne Luigi XIII a grossi fiori, la camera aveva i mobili di mogano di tutti gli alberghi, e un tappeto rosso cosparso di foglie nere. Regnava un pesante silenzio, rotto soltanto da qualche sussurro…”. Qualcuno avrà riconosciuto il passo tratto da “Nanà”. Émile Zola sapeva il fatto suo in tema di tessuti. C’è chi ha scritto saggi e libri sui tessuti nei romanzi di Zola. Ma chi di noi ha davvero mai visto e, più ancora, toccato con mano una cretonne?
La cretonne la incontriamo anche ne “Il romanzo della fortuna” di Neera (1906) e in “Olga” (o “Sempre zitella”) della obliata Maria Repetti, scrittrice di genere di fine Ottocento. “Le aveva fatto acconciare una bella camera, tutta fresca e chiara nel suo cretonne ponpadour, una camera piena di ninnoli graziosi, come Lucia li amava”. Anche Matilde Serao, sei volte a un passo dal Nobel, nel suo “Fantasia”, il romanzo del 1883 che la rese celebre, usava la cretonne come tappezzeria (ma la scriveva al maschile e scriveva anche “ponpadour” con “n”).
Leggere è un’azione totale e immersiva. Ma è fisica per via indiretta: serve l’esperienza per vivere davvero ciò che si legge. Non tutti possono permettersi di sperimentare l’ira funesta di una balena bianca per capire fino in fondo il destino del capitano Achab, ma ci sono ambiti con maggior margine. Per esempio, quello che ha a che fare colla cretonne. E con molti altri tessuti che hanno vestito personaggi di romanzi più o meno famosi, che ne hanno arredato gli ambienti, che sono stati i veri protagonisti assoluti di libri amati o ancora da scoprire. Ma dove trovare quei tessuti? Beh, negli archivi. Archivi particolari di cui il Biellese abbonda, ma che non sempre sono accessibili. Tant’è che, quando capita l’occasione, è opportuno coglierla al volo, come quella che domenica prossima offrirà Casa Zegna per il suo “Heritage Day”. I preziosi campionari usciranno dal “caveau” per farsi ammirare, ma anche per far riflettere sulla natura più vera degli archivi (e non solo quelli d’impresa), cioè che l’archivio non è un deposito, ma un progetto. Un progetto che fa progettare, che moltiplica le possibilità di elaborazione e di interpretazione. Che sia il fulcro creativo di una nuova collezione o lo stimolo inedito di una proposta artistica (come l’allestimento di Emilio Vavarella visibile negli spazi espositivi) l’archivio si fa leggere in mille modi. E, come appena scritto, ci aiuta a leggere. Nei campionari Heberlein, oltre alla cretonne, si incontra l’organza.
Nella immaginaria Coketown di “Tempi difficili” (1854), decimo romanzo di Charles Dickens, c’era una squallida locanda, all’insegna delle “Braccia di Pegaso”. Oltre all’iscrizione all’esterno del locale, “appeso alla parete, dietro al sudicio bancone, incorniciato e protetto da un vetro, era raffigurato un altro Pegaso – un Pegaso decisamente teatrale – le ali fatte di vera organza, tutto cosparso di stelle dorate, e gli eterei finimenti in seta rossa”. Riusciamo a immaginare una simile figura? Così fuori luogo in una “città del carbone” dove tutto era scuro e sporco? E la delicatezza dell’organza, quella meraviglia che veniva dal Turkestan attraversato già da Marco Polo, quanto contrasta con il rude contesto minerario entro cui quel genio di Dickens la pone? Ma Dickens non è certo il primo a servirsi di quell’impalpabile intreccio. “Il seno appariva pudicamente velato. Il lungo vestito bianco, adorno di un’azzurra fusciacca, consentiva di scorgere un piccolo piede di delicatissime proporzioni. Un rosario a grossi grani pendeva dal suo braccio, e un fitto velo di organza nera velava il suo volto”. Quanto mistero, a Madrid, sotto quei veli… Così comincia “Il monaco” di Matthew Gregory Lewis uscito nel 1796, vero monumento della letteratura gotica. Matilda, seduce il pio monaco Ambrosio e poi è tutto un colpo di scena tra lussuria (il religioso si invaghisce anche di Antonia, quella celata dall’organza), stregoneria, anime vendute al diavolo, morte e dannazione… Non sarà difficile, individuato su una pagina di un campionario Heberlein un ritaglio di organza nera, associare a quel tessuto l’immagine della giovane velata descritta dal romanziere inglese più di due secoli fa.
La magia della letteratura spesso e volentieri attinge da quella non meno potente degli archivi. Ed è solo una questione di buone pratiche di connessione. A mente aperta, le idee su come valorizzare i sistemi di memoria non mancano mai, anzi. Questo del cercare i tessuti nei libri, metafora dei campionari che i tessuti li contengono fisicamente, è un bel gioco: concretizza le sensazioni e colora le immagini mentali. Una “realtà aumentata” sui generis. Se domenica vi accadrà di imbattervi in un madras, pensate a “Mademoiselle de Cardonne” (1853), ambientato da Henri Aristide de Gondrecourt a Santo Domingo, appena dopo l’abolizione della schiavitù. “La giovane signora scorse in fondo alla strada il dottor Primorel che coperto da un ampio paletot, col viso nascosto da un madras, con grossi guanti che gli coprivano le mani, si avanzava verso la fattoria”. Qui, invece, siamo in Bretagna, sull’atlantico. Intrighi niente male, scritti da uno sconosciuto (o sconosciuta?) E. De Bouilly, tradotto in italiano nel 1878. Titolo: “La casa nera”. Con madras. Leggero, indiano. Non certo bretone, ma così tanto diffuso lassù da farlo portare col paletot e i guanti, comme d’habitude. Possiamo andare avanti così con la mussolina (c’è, rigorosamente bianca, ne “L’Ebreo errante” di Eugène Sue, il romanzo d’appendice del 1844-1845 “contro” i gesuiti), con la crêpe (vedasi, del meno noto Alexandre Dumas padre, “I compagni di Jéhu”, o “La signora della notte” di Emanuele Fernandez Y. Gonzales) e con la popeline o poplin. In “The romance of a dull life”, di Anne Judith Penny (1861), di cui non esiste traduzione italiana, “Still you have seen how people are dressing themselves now, and I have been waiting till you came back hoping you could tell me how I had better have my poplin made up when it is turned. Miss Tennent has just had her silk dyed, the brown one I mean, and made with trimmings up the front”. Si parla di come portare quel tessuto lieve, di cotone, che in tempi remoti era prerogativa del papa nella sua cattività avignonese (da lì il nome: stoffa “papalina” diventa “popeline”).
Gli archivi imbrigliano un’energia potenziale enorme. Con poco la si riesce a trasformare in una forza motrice straordinaria, che può innescare processi dinamici non solo puntuali, ma al contrario condivisi. La tecnologia rende dinamico e globale qualsiasi fenomeno, soprattutto quelli che attengono alla conoscenza. Il passato custodito negli archivi è il trampolino per il futuro. Sfogliando un librone della collezione Claude Frères del Lanificio Ermenegildo Zegna si può esplorare il mondo dei tweed. Arthur Conad Doyle li faceva indossare sotto forma di berretto deerstalker al suo famoso detective. Li apprezzava Virginia Woolf (“Gli anni”, del 1937), li apprezzano Haruki Murakami (“Tokyo Blues”, del 1987) e Patrick mcgrath (“La guardarobiera”, del 2017). Occhio alle date: i tweed, nella letteratura, non passano mai di moda. Idem per la gabardine. Joseph Conrad veste il vecchio medico che visita e misura il cranio di Charles Marlow prima dell’ultimo tratto di giungla verso il nascondiglio dell’inumano Kurtz. “Era un ometto mal rasato con una giacca frusta, una sorta di gabardine, le pantofole ai piedi e io pensai che fosse un pazzo innocuo”. Vasco Pratolini ed Elio Vittorini: anche loro non si fanno mancare la gabardine. E Beppe Fenoglio. In “Il partigiano Johnny” si legge: “Nord uscì sulla radura. La sua bellezza era solare. Ristette in un acceso riquadro di sole, in perfetta divisa ancora estiva: una camicia di seta cachi ritagliata nel ricco volume d’un paracadute, calzoni di gabardine cachi inviatigli in dono dal comando della I Divisione, che ricadevano in perfetto aplomb sui suoi piedi in sandali”. E i nomi dei tessuti che popolano quei database incredibili che sono gli échantillon Claude Frères ci conducono, per altre vie, ai luoghi dove è nato il romanzo storico: il fiume Tweed, per l’appunto, i monti Cheviot, le Highland dei tartan, le Shetland dei maglioni che “pungono”, il Galles coi suoi principi, e l’irlandese Donegal. Sono i posti di Sir Walter Scott. E se non fossero libri, ma quadri o vecchie foto? E film, magari in bianco e nero? Ci saranno altri “Heritage Day”, no?
Articolo di Danilo Craveia, pubblicato su “Eco di Biella” il 7 ottobre 2022